Quante volte ci troviamo di fronte a capitelli, colonne o fregi antichi? Rispondere a questa domanda è difficile a causa del fenomeno del reimpiego.
Il reimpiego altro non è che il riuso di materiali, strutturali o decorativi, già esistenti e riadattati per una nuova funzione o con l’intento di dare lustro attraverso una patina di antichità o per la semplice necessità di mancanza di materiali.
Già durante l’impero romano (l’arco di Costantino nel foro romano è uno degli esempi più noti) la pratica era comune, tanto da portare all’ideazione di leggi imperiali che proibirono, ufficialmente nel 356 d. C. , l’asportazione di materiale dai templi chiusi.
Nell’alto medioevo il fenomeno divenne diffusissimo e senza controllo e se a Roma vale il detto “Ciò che non fecero i Barbari fecero i Barberini”, alludendo alle spoliazioni attuate dalla ricca famiglia romana per adornare dimore e chiese, in Puglia e nella nostra Capitananta, questa abitudine non è stata diversa.
Si vuole prendere ad esempio la città di Lucera ricca e fiorentissima dall’età dauna fino al XX secolo, in giro per la città si possono osservare iscrizioni latine di carattere romano, decorazioni scultoree o porzioni di breccia corallina provenienti dal castello, variamente incastonate in edifici moderni.
Qui, al contrario di quanto avveniva a Pisa dove le antichità venivano esposte per creare un ideale raccordo con lo splendore di Roma, il riuso è dettato da necessità costruttive e il materiale veniva riusato per la sua abbondanza. Oltre alla citata breccia, infatti, bisogna ricordare che Luceria abbondava di sepolture di ricchi personaggi arricchitisi durante la fase imperiale.
Di seguito alcune delle opere che fanno capolino dai palazzi moderni ed un esempio conservato nel Museo di Archeologia Urbana di Lucera G. Fiorelli.